Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico

IL MEZZOGIORNO AUSTRIACO E BORBONICO

Recensione di Gerardo Pecci

Il 27 aprile 2009 è terminata la stampa dell’opera di Francesco Abbate “Storia dell’arte nell’Italia meridionale”. Il quinto e ultimo volume conclude un lavoro impegnativo di sintesi delle ricerche storico-artistiche che hanno caratterizzato il racconto delle esperienze artistiche dell’Italia meridionale dall’età longobarda a quella borbonica.

Un racconto lungo e paziente che nell’ultimo volume affronta un arco di tempo di circa centocinquanta anni e del quale Abbate ci offre uno scorrevole racconto delle vicende storico-artistiche del Mezzogiorno, prima austriaco, poi borbonico: da Napoli alle province, alla Sicilia. Si tratta di momenti storico-politici e storico-artistici cruciali, che vedono il Mezzogiorno “aprirsi”, nel corso del XVIII secolo, verso una cultura che si lega ad esperienze ed aspetti di respiro internazionale, soprattutto verso il cosmopolitismo culturale, e non solo politico, dell’Illuminismo, che pure ebbe a Napoli una sua ragion d’essere, un suo ruolo, attraverso Antonio Genovesi o Bartolo Intieri, alla ricerca di una filosofia sempre più intesa come etica, non chiusa in sé, nella pura speculazione, ma con il chiaro intento di «giovare alle bisogne della vita umana». Altro pilastro portante di questo pensiero è Giambattista Vico. Abbate offre al lettore una puntuale ricostruzione del clima artistico del periodo, anche attraverso momenti cruciali quali il movimento dell’Arcadia, della letteratura d’impronta bucolica, della chiara e serena pittura rococò, con una sottile vena di temperato classicismo che possiamo trovare nella produzione coeva, tra fine Seicento e inizio Settecento. Ma sullo sfondo di queste vicende c’è poi l’intreccio di un classicismo archeologico, alla “moda”, alimentato dalle scoperte delle due grandi città romane di Pompei ed Ercolano, sepolte dalla furia devastatrice del Vesuvio in quel maledetto giorno di agosto del 79 d.C., e dalla quasi contemporanea “scoperta” dei templi di Paestum che pure ispirarono vedute architettoniche straordinarie del pittore Antonio Joli (o Ioli) o le successive vedute di Hackert riguardanti, per esempio, i siti reali di caccia e di svago borbonici, al tempo di Carlo III e poi di Ferdinando IV, o le altrettanto importanti vedute, tra Roma e Napoli, di Gaspar van Wittel, padre di un altro grande protagonista delle vicende storico-architettoniche e artistiche dell’Italia meridionale settecentesca: l’architetto Luigi Vanvitelli. Il primo capitolo, corposo, affronta la produzione artistica a Napoli durante il viceregno austriaco (1707-1734) partendo da una sintesi su quello che era il clima politico e l’assetto istituzionale di Napoli “austriaca” che, pur sostituendosi al “malgoverno” spagnolo, non cambiò poi di molto i fatti e i misfatti della precedente amministrazione se è vero che proprio personaggi politici napoletani che avevano ruoli nel passato regime spagnolo furono «prontamente orientati ad abbracciare questi nuovi principi (riciclandosi, diciamolo pure)…»(pag.7). In tale temperie operarono artisti come Francesco Solimena e Luca Giordano, il maggiore artista di dimensione europea, ma anche Paolo De Matteis che operò una personale pittura tra Luca Giordano e le istanze classiciste presenti nella cultura napoletana dell’epoca. Erano gli anni del ritorno del Giordano a Napoli e della prima grande pittura di Solimena. Ma in quel lasso di tempo (1702-1705) il cilentano De Matteis fu attivo a Parigi dopo essersi formato ai modi di Giordano e poi di Maratta a Roma: «Classicismo e tradizione giordanesca, allora; […] combinati con efficacia di risultati per nulla generici.»(pag. 11) Abbate ritiene che la pittura del De Matteis fu lontana dalla poetica tout court del rococò dal quale il pittore mantenne comunque una certa distanza, pur se fu amico di Giacomo Del Po. In questo contesto operò anche lo scultore Giacomo Colombo che nel 1701 divenne Prefetto della Corporazione dei Pittori di Napoli e che ebbe modi stilistico-scultorei a tratti legati a un elegante e temperato classicismo, alla tradizione naturalistico-veristica del presepe napoletano e a un’incipiente vena rococò sulla quale è stata ipotizzata la cosiddetta “svolta stilistica” del 1709, relativamente al gruppo ligneo e policromo dell’ “Annunciazione” di Sant’Arsenio, messa in campo da Letizia Gaeta e sostenuta, non fra dubbi e ricerche, anche da Francesco Abbate in questo volume allorquando si chiede su «quanto la svolta rococò di Giacomo Colombo (per esempio nell’ Angelo annunziante di Sant’Arsenio, che è del 1709) sia debitrice proprio al Vaccaro.»(pag. 80) Ma io rilancio e mi chiedo, e chiedo al professor Abbate: se questa svolta “rococò è una costante presente e rilevabile nelle opere del Colombo, dopo il fatidico spartiacque dell’anno 1709, in quali altre opere successive la si può rilevare e senza soluzione di continuità, dunque senza interruzioni? O è solo presente in alcune opere, in alcuni episodi scultorei colombiani? D’altra parte la “questio” esige una risposta, che pur sembra rilevarsi nel lavoro dell’autore e mi pare che è presente laddove l’Abbate afferma che l’artista non sarebbe legato a una corrente stilistica in particolare «nel senso che Colombo è spinto a muoversi su diversi e variegati registri espressivi, per venire incontro al meglio a differenziate richieste e svariate esigenze della committenza.» (pag.88) Dunque la committenza esercitava un ruolo non indifferente nel proporre all’artista opere di diverse: dal gruppo scultoreo, solenne, della “Pietà” ebolitana a semplici figure presepiali, che esigevano per forza registri stilistici e iconografie di volta in volta diversi. D’altra parte anche il “solimenismo” colombiano lascia il posto a influssi pittorici che provengono soprattutto da Luca Giordano, com’è piuttosto evidente nella tela dipinta che fa da fondale proprio al gruppo dell’ “Annunciazione” di Sant’Arsenio (Salerno), tradizionalmente attribuita alla mano dello scultore-pittore, sia pure con qualche opinione contraria, come quella di Antonio Braca che, inceve, l’attribuisce a Francesco Solimena. Da qualche altra parte c’è la presenza di Giacomo Colombo che proprio in qualità di pittore predilige apertamente la pittura del Giordano, e non solo dal punto di vista coloristico, ma anche da quello strettamente iconografico. Ma è un’altra storia, in attesa di essere scritta. L’analisi di Abbate poi prosegue nella tradizione pittorica giordanesca fino ad esaminare, poi, la figura di Solimena durante il viceregno austriaco, per passare ai solimeneschi e a Domenico Antonio Vaccaro in qualità di pittore, prima con le tele di Sant’Agostino degli Scalzi e poi con altre opere. L’Abbate sottolinea la complessa formazione stilistica del Vaccaro, con presenze nelle sue opere di tratti stilistici che variamente si rifanno a Solimena e a Luca Giordano, ma anche al Gaulli e ai decoratori genovesi Piola e Ferrari. Dopo l’intermezzo dedicato al pittore calabrese Francesco Peresi, l’Autore ci offre un’interessante lettura del romano Giacomo Del Po (pp.38-40), anche in rapporto all’ultima stagione pittorica dell’oramai anziano Luca Giordano e altri pittori dell’area culturale genovese. Altro affresco chiaro e illuminante è il rococò architettonico napoletano attraverso le personalità di Domenico Antonio Vaccaro e del Sanfelice, la cui poetica architettonica si irradiò, seppure con esiti differenti, da Napoli verso le province, durante il viceregno austriaco. Celebri restano nell’architettura sanfeliciana le sue “scale aperte”, che travalicano gli spazi della vita dei palazzi napoletani e non napoletani. Un celebre esempio è il « monumentale scalone di palazzo Serra di Cassano […] che immette direttamente nel piano nobile, è infatti inserito in un vano chiuso, una sorta di grandioso vestibolo a cui si accede da un vasto arco, posto al termine del cortile ottagonale; motivo, anche questo, innovatore nella pratica architettonica di Sanfelice…» (pag. 61)

Per quanto concerne la scultura ai tempi del viceregno austriaco, l’Autore non manca di evidenziare la personalità di Giovan Battista Antonini, giunto a Napoli proveniente da Roma, con echi stilistici legati alla cosiddetta « fronda solimenesca» pittorica, «con chiari agganci, nella sua forte impostazione alla Gaulli, con Giacomo Del Po.» (pag.83) Altro filone portante del panorama pittorico viceregnale austriaco è certamente quello legato al vedutismo, genere artistico particolarmente sviluppato nel corso del XVIII secolo e variamente intrecciato con il gusto del “capriccio” e del “rovinismo” di matrice archeologico-romantica. Tra i “vedutisti” l’Autore cita Leonardo Coccorante, seppure legato a una fantasiosa vena inventiva, Angelo Maria Costa, Tommaso Ruiz, Michele Pagano: «piccoli maestri» di questo genere che pure aveva un proprio spazio nel mercato artistico dell’epoca, tanto a Roma quanto a Napoli. Il libro prosegue con il racconto degli avvenimenti che improntarono la civiltà storica e artistica nata e sviluppatasi nel corso del venticinquennale regno di Carlo III di Borbone (1734-1759) su Napoli e il Mezzogiorno italiano, fino al momento del trasferimento del sovrano in Spagna, per assumerne la reggenza. Centrale attenzione è dedicata da Abbate alla «insaziabile passione venatoria di Carlo» (pagg.102-103) che ebbe come conseguenza l’acquisizione di vasti territori e feudi in cui egli istituì, soprattutto in Campania, da Capua a Venafro e a Persano, importanti siti reali di caccia, un po’ come avveniva nel contempo nel Piemonte sabaudo. E in questo frangente, considerato anche il cantiere della Reggia di Caserta, Carlo III ritenne opportuno rivolgersi ad architetti provenienti da Roma: Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga e Antonio Canevari, relegando in un angolino i napoletani Domenico Antonio Vaccaro e Ferdinando Sanfelice. Anche la viabilità ne risentì beneficamente in quanto il re si preoccupò di collegare la capitale con le residenze periferiche. L’Autore passa poi al racconto delle vicende, anche queste non di secondaria importanza, dell’architettura e delle arti a Napoli sotto il re Ferdinando IV, succeduto al padre, offrendoci una lettura piacevole, a tratti arguta. Egli ci racconta le vicende, e anche le passioni latenti, che improntarono la vita stessa degli artisti, seppure intuite e inserite in un circuito culturale e politico non certo semplice, ma alquanto variegato, complesso, i cui intrecci e il cui svolgimento non sono certamente semplici da dipanare. Interessanti sono le pagine dedicate al Presepe napoletano (pagg. 177-187), forma di altissimo artigianato artistico e fenomeno d’arte e di costume che finiva per coinvolgere personalità di rilievo del panorama scultoreo e pittorico dell’epoca, nonché gli stessi coniugi Carlo di Borbone e Maria Amalia che spesso cuciva «di sua mano le fantasiose e spesso sontuose vesti dei pastori. Fenomeno artigianale, allora, oltre che artistico.»(pag. 180) Un capitolo a sé l’Abbate lo dedica alla Reggia di Caserta e ai siti reali borbonici, offrendoci una chiave di lettura che, in fondo, racchiude aspetti di vita della corte borbonica, da Carlo III a Ferdinando IV. Interessante è la lettura e la ricostruzione dei rapporti fra l’architetto Luigi Vanvitelli e gli artisti del proprio tempo, soprattutto in funzione della costruzione della Reggia casertana. Interessante è anche il capitolo, che si riallaccia a quanto prima affermato, sul genere prospettico – pittorico paesaggistico e quello topografico – urbanistico, da Joli ad Hackert e poi alla cosiddetta “Scuola di Posillipo”, con la figura dell’artista Giacinto Gigante. Purtroppo, Francesco Abbate dedica poco spazio ad Antonio Joli (o Ioli), che invece, a mio avviso, resta un autore importante soprattutto per alcune celebri vedute dei templi arcaici greci di Poseidonia. Inoltre nel volume è eclatante l’assenza – nel capitolo dedicato al vedutismo – di Giambattista (o Giovan Battista) Piranesi che pure ha lasciato eccezionali incisioni con vedute dei templi pestani (nel 1777) e, prima, delle città romane di Pompei ed Ercolano (1770). Le incisioni piranesiane con vedute, infatti, ricoprono un ruolo importante non solo riguardo al genere della veduta “archeologica”, ma soprattutto come documentazione storico-topografica di una realtà culturale: quella legata alla rinascita – sia pure in senso neoclassico e/o preromantico – di un mondo antico che è capace di evocare suggestioni e “malinconie”attraverso il culto delle rovine antiche, che pure faceva parte dell’immaginario collettivo della civiltà artistico-letteraria dell’epoca. E proprio sull’importanza di Paestum nell’ambito della pittura di veduta “antiquaria” e topografica settecentesca lo storico dell’arte Giuliano Briganti scrisse un’importante pagina, dal titolo “Paestum e il vedutismo settecentesco” (in “La fortuna di Paestum e la memoria del dorico 1750-1830”, catalogo della mostra, Padula, Certosa di San Lorenzo, 1986, vol. I, pp. 60-62 e ssgg.). In esso Briganti, riguardo al pittore Joli, scrisse che è appunto con lui «che si può dire inizi il rapporto diretto fra un vedutista e una committenza di precisi interessi eruditi-antiquari. Non è un caso, infatti, che la rassegna delle vedute di Paestum, si apra con tre sue vedute dei templi (penso che in origine fossero più di tre) eseguite a Napoli nel 1759 e che, di Paestum, costituiscono, in pittura, la prima esatta documentazione visiva.»(ivi, pagg. 60-61) Sappiamo poi che fu soprattutto intorno alla fine degli anni Settanta che si affermò una sorta di vedutismo meno sensibile al fantastico e al rococò, una sorta di “reportage paesistico” e topografico che incontrava i gusti dei viaggiatori colti che giravano per le contrade del Mezzogiorno d’Italia, appunto il vedutismo messo in cantiere anche dal Piranesi. Piuttosto articolato è quello che Abbate dice in merito alla “Scuola di Posillipo” da Pitloo a Gigante dall’interpretazione “romantica” del paesaggio alla macchia pre-impressionista presente già in Pitloo, ai disegni dal vero di Gigante e ai suoi luminosi paesaggi, fino a Salvatore Fergola che, invece, si formò al di fuori della cerchia dei “posillipisti” e fu più legato al filone hackertiano. Il capitolo successivo, sull’Ottocento napoletano si apre con la chiusura dell’Accademia Reale delle Belle Arti della città partenopea, dal 1789 al 1803, in seguito ai moti giacobini, filo francesi, e, poi, il cosiddetto “decennio francese” e il rapporto tra Murat e le arti figurative, in cui periodo è stato peraltro studiato recentemente, nel 2008, anche da Ornella Scognamiglio nell’opera “I dipinti di Gioacchino e Carolina Murat. Storia di una collezione”. Successivamente, Abbate traccia una sintetica panoramica degli avvenimenti artistici a Napoli fino al 1848 e all’Unità d’Italia. Nel 1825, a imitazione dei “salons” parigini, Francesco I emanò il decreto di organizzazione di mostre d’arte a cadenza biennale, le cosiddette «biennali borboniche» (p.333) con la presenza di tutte le arti, «comprese le arti minori» (p.333). Da non dimenticare il riordino degli insegnamento dell’Accademia delle Belle arti napoletana ad opera di Antonio Niccolini, nel 1822. Tra i pittori accademici di questo periodo l’Abbate ricorda Raffaele Postiglione, Tommaso De Vivo, Giuseppe De Nigris e altri artefici, fino a giungere a più importanti artisti, tra cui Domenico Morelli e il “verista” Filippo Palizzi.

L’ Autore poi ci offre un’interessantissima lettura panoramica dell’architettura dell’Ottocento a Napoli, con dovizia di informazioni e completezza di giudizio sulle opere di volta in volta descritte, proseguendo con un’interessante panoramica delle trasformazioni urbanistiche partenopee, sia della città borbonica che di quella murattiana. Purtroppo, a corredo dei capitoli sulle vicende architettoniche ed urbanistiche di Napoli e dell’intero Mezzogiorno, vi è la mancanza di piante urbanistiche ed architettoniche di supporto, che sarebbero state di grande utilità per il lettore, pur se è ottima la ricostruzione filologica e narrativa di queste trasformazioni.

Molto importante e illuminante è il capitolo sulle arti applicate (pp.395-469) a Napoli e nel Mezzogiorno dal secolo XVIII al secolo XIX e che giustamente Francesco Abbate afferma che tali arti «minori spesso non furono affatto.»( p. 395) Sfilano davanti ai nostri occhi opere d’arte in argento, le maioliche e le porcellane di Capodimonte, i marmi commessi, gli intagli lignei, gli arazzi…tutte opere di grande tenore qualitativo, spesso dovute alla paternità di grandi nomi dell’arte del tempo. Tutto ciò dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, ma non credo, come Napoli e il Mezzogiorno d’Italia non fossero affatto legati a una produzione in ‘tono minore’, rispetto a quelle messe in cantiere in altre zone d’Italia. Si tratta, com’è noto, di una variegata e complessa produzione artistica e di alto livello tecnico e /o artigianale che, anzi, svolgeva spesso un ruolo trainante nell’intero contesto europeo, con prodotti di altissima e certissima qualità. Abbate rende finalmente giustizia a un Mezzogiorno che fu realmente un territorio di eccellenza, all’avanguardia, per quanto concerne questa produzione di altissima e finissima ricerca artistico-artigianale. Nella seconda parte del volume l’Autore analizza in linee generali, ma sufficientemente articolate, le diverse realtà artistiche relative alla province del viceregno austriaco e borbonico, soffermandosi sugli esempi regionali dell’arte prodotta nei diversi contesti civili e culturali dell’epoca, con un intero capitolo dedicato alla Sicilia nel Settecento, e fino all’Ottocento nel regno continentale e poi di nuovo in Sicilia. L’analisi dell’arte campana del primo Settecento, ad esempio, parte dalla Terra di Lavoro, da Capua ed Aversa, da Nola a Sorrento; poi analizza il Principato Ultra, da Benevento al tempo del Card. Vincenzo Maria Orsini (successivamente papa con il nome di Benedetto XIII) che resse la diocesi per il primo ventennio del XVIII secolo, e con i lavori dell’architetto Filippo Raguzzini. Si passa poi a San’Agata dei Goti, dove vi è la presenza del pittore Tommaso Giaquinto. Relativamente al Principato Citra l’Abbate cita la chiesa dell’Annunziata a Salerno per poi parlare degli interventi nel Duomo di San Matteo, a partire dal 1700 per volontà dell’arcivescovo Bonaventura Poerio, proseguiti poi ai tempi dell’arcivescovo Paolo de Vilana Perlas, con gli interventi del Sanfelice, particolarmente enfatizzati dal De Dominici, ma che in realtà furono piuttosto modesti. Altro momento importante fu la ricostruzione del monastero di San Giorgio delle monache benedettine, sul quale l’Abbate si sofferma perché opera del predetto Sanfelice, per passare poi al pittore Filippo Pennini (o Pennino) e auno sguardo su «certi meccanismi del mercato artistico provinciale…».(p.488) Pagine ricchi di spunti e interessanti riflessioni sono poi quelle dedicate ai pittori Michele Ricciardi e Leonardo Olivieri (pp.489-492). Poi l’Autore si sofferma sulla pittura in costiera d’Amalfi e sul Duomo dell’antica repubblica marinara. Altre interessanti pagine sono quelle dedicate alla Certosa di Padula nel Settecento e il limitrofo territorio (pp.500-509). L’autore, successivamente, passa al racconto delle vicende artistiche nella Calabria, e in Basilicata, dove attribuisce alla mano dello scultore Giacomo Colombo il “Cristo morto compianto dall’Addolorata” (p.527) nella chiesa del Crocifisso a Lagonegro (Potenza) che conserva altri capolavori in legno policromo del grande scultore d’Este: un “”Ecce Homo” del 1707 e un “San Sebastiano”. Abbate poi traccia un sintetico profilo dell’arte del Settecento in Abruzzo, in Molise e in Puglia, soffermandosi per più pagine (pp.535-552). Altro capitolo importante è quello dedicato alle province continentali nel Settecento borbonico e il corposo capitolo dedicato alla Sicilia nel medesimo secolo (pp. 589-645) in cui lo studioso ci offre uno spaccato piuttosto esaustivo delle civiltà artistica siciliana dell’epoca. Conclude il volume il capitolo dedicato all’Ottocento nel regno continentale e in Sicilia, fino all’Unità nazionale italiana. Il libro si chiude con un’interessante bibliografia (da p.675 a p.689) e con l’indice dei nomi. Nella premessa alla bibliografia, Autore afferma che l’ultimo volume, come pure l’intera opera, è «pensato per un pubblico non specialistico, e la relativa bibliografia quale possibile approfondimento per quel tipo di pubblico. Quest’ultima pertanto, lungi dal voler essere completa, privilegia i testi più recenti e possibilmente quelli in italiano, salvo i casi di opere fondamentali.» (p. 675) Sostanzialmente, non si può non essere pienamente d’accordo con Abbate riguardo al taglio divulgativo usato, perché tale è il tono e il registro linguistico storico-artistico che impronta tutta l’opera. Ciò rappresenta indubbiamente un grande pregio poiché è il primo tentativo organico di voler “sistematizzare” in un vasto orizzonte storiografico e geografico-storico il lungo percorso della storia dell’arte nell’Italia meridionale, rendendolo fruibile a un sempre più vasto pubblico che s’accosta (o dovrebbe farlo) al ricco patrimonio di opere d’arte che il Mezzogiorno italiano possiede, togliendolo all’oblio del tempo e della memoria, dando ad esso visibilità e una rinnovata vita. Ma sappiamo anche che quest’ultimo volume, com’è già successo con gli altri che lo hanno preceduto, non è soltanto destinato a un astratto pubblico generico, ma sicuramente anche agli studiosi, agli specialisti e agli studenti universitari e quelli degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado, per colmare in parte alcune delle gravissime e macroscopiche lacune presenti nei libri di testo, dove vige la quasi totale mancanza di riferimenti a momenti storico-culturali e artistici dell’Italia meridionale. Da questo punto di vista, e per queste ragioni, la bibliografia avrebbe dovuto essere più “completa”, con citazioni di studi e contributi relativi a momenti, personalità e anche singole opere scoperte da poco, ma pubblicate, quindi fruibili per chi ama conoscere “qualcosa in più”. Una bibliografia più ricca e puntuale sugli argomenti trattati, anche e solo relativa a testi e studi in lingua italiana, sarebbe stata sicuramente più utile e proficua per tutti. Sono sicuro che anche questo volume, come i precedenti, farà parte dei libri di testo che saranno adottati in alcuni corsi di storia dell’arte di atenei italiani e quindi, a maggiore ragione, la bibliografia di riferimento avrebbe dovuto essere il più aggiornata possibile, senza esclusioni di sorta. Ma fare una scelta “parziale”, a monte, a mio avviso avrebbe dovuto essere evitata proprio perché risulta, alla fine, mutila. D’altra parte si comprende che una persona non sempre può essere informata attimo per attimo di ciò che avviene negli studi del settore di propria competenza e quindi è chiaro che delle involontarie omissioni sono sempre possibili. Resta il fatto che questo volume, come i precedenti, rappresenta un contributo notevole per un rinnovato e sempre più acuto interesse verso i grandi capolavori d’arte che il nostro Sud possiede e deve spingere altri studiosi a seguire la via tracciata dall’Autore.

Autore : Francesco Abbate
Titolo: Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico.
Napoli, le province, la Sicilia.
pp. XXIV-728, rilegato, Euro 60,00

ISBN 978886036345
Donzelli editore, Roma 2009

Una Risposta to “Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il mezzogiorno austriaco e borbonico”

  1. FEDERICO LA SALA Says:

    UNA BELLA RECENSIONE SU UN LAVORO STORIOGRAFICO IMPORTANTE PER MEGLIO ILLUMINARE ANCHE “IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg ” (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5737).

    Federico La Sala

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